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SI FA PRESTO A DIRE TRANSIZIONE ENERGETICA

Fit for 55” nonché stop alla produzione/immatricolazione delle vetture a carburanti fossili nel 2035: sono le deadlines poste dall’Unione Europea quali termini temporali per intraprendere in forma fattiva i percorsi della transizione energetica, verso una evoluzione in direzione maggioritaria, quella della elettrificazione, della mobilità delle famiglie, mentre sono più complessi ed integrati i percorsi per il trasporto pesante.

Un tanto inserito nel più vasto contesto della decarbonizzazione complessiva che riguarda tutti gli aspetti e processi anche produttivi della zona UE.

Sulla questione complessiva, al di là degli sfrenati ottimismi degli esponenti di quello che è stato felicemente definito “il partito degli elettricisti”, si registrano le autorevoli opinioni del ministro preposto Roberto Cingolani: “la transizione potrebbe essere un bagno di sangue”, accompagnata da un commento in margine al G20 “L’Europa fa investimenti ingenti per decarbonizzare, ma produce solo il 9% della CO2. Ha un’ottima leadership nello sforzo, ma non basta. Se altri paesi non aderiscono, le loro emissioni compensano i nostri tagli, il sistema salta, e noi intanto ci siamo svenati“. A sua volta, il Ceo  di Eni Claudio Descalzi, ha sottolineato che “la transizione energetica sta creando la morte nel sistema industriale” affermando che “se Bruxelles si ostinerà a portare avanti il suo Green Deal in modo radicale senza che le altre potenze facciano lo stesso, sarà una catastrofe economica per l’Europa e senza che l’ambiente ne benefici in alcun modo”.

Di tono niente affatto diverso il giudizio del Presidente di UNEM, l’ing. Claudio Spinaci: “È necessaria un’azione maggiormente coordinata a livello internazionale, altrimenti non avremmo effetti positivi sull’ambiente a livello globale, ma solo rischi di deindustrializzazione e forte delocalizzazione, con danni occupazionali e sociali da noi, e un contemporaneo aumento delle emissioni di CO2 negli altri Continenti. Perdere la raffinazione e delocalizzare la produzione avrebbe come unico effetto quello di indebolire la nostra posizione competitiva senza reali benefici ambientali”.

Elettrificazione di massa della mobilità privata, più semplice a “dire” che altro.

Un occhio all’andamento del mercato delle nuove immatricolazioni di autovetture registra una crescita dei mezzi ad alimentazione non fossile: tra metano, ibride, elettriche, si passa dall’8,6 % nel 2019 al 37,4 % nei primi sei mesi del 2021. Quote importanti, ma in termini assoluti bisogna distinguere: le elettriche “pure” passano da 10.700 unità nel 2019 a 30.200 nel primo semestre 2021, ossia dallo 0,6 al 3,4 % delle nuove immatricolazioni.

Le nuove immatricolazioni, appunto.

Un’overview veloce al parco circolante a fine 2020 (quasi 40 milioni di autovetture) racconta altre verità: circa l’1,41 % del parco è costituito da ibride, elettriche o altro, il 2,46 % a metano, il 6,74 % a gpl, il 43,77 a gasolio ed il 45,50 % a benzina. Nel 2015 il mix era il seguente: ibride, elettriche o altro per una quota dello 0,26 %, metano 2,36 %, gpl 5,72 %, gasolio 41,94 % e benzina 49,71 %. La “conversione” dal fossile è assai limitata: il fossile (benzina, gasolio e gpl) nel 2015 costituiva il 97,37 % del parco, nel 2020 il 96,01 %, un delta di 1,36 punti percentuali sul parco complessivo.

E sulla classificazione Euro va ancora peggio: il 30,53 % è costituito dalle classi a 0 a 3, il 25,82 % è in classe 4 ed il 43,65 % in classe superiore a Euro 4.

Poca “sensibilità diffusa” sui temi della transizione? Può essere, ma stando ad uno studio dell’Associazione europea produttori automobili (ACEA), le forti differenze nazionali nelle vendite di auto elettriche nell’UE risultano “chiaramente correlate al tenore di vita di un Paese”, ossia l’auto elettrica non è ancora a portata di tutti. La ricerca, infatti, rileva che i paesi con una quota di mercato totale delle auto elettriche inferiore al 3 % hanno mediamente un Pil pro-capite medio inferiore a 17.000 euro e di converso una quota di mercato superiore al 15 % per le auto elettriche si registra solo nei paesi più ricchi con un Pil pro-capite medio superiore ai 46.000 euro.

Forse per questo, Tesla sta facendo azione di lobby da mesi in Regno Unito chiedendo al governo di alzare le imposte su benzina e diesel per destinarle a maggiori sussidi per i veicoli elettrici, con il risultato di poter essere “un sistema neutrale in termini di entrate per il governo”, insomma di garantire una parità di gettito e costituire un potente incentivo al rinnovo/disincentivo alla conservazione del parco.

Già, incentivi e politiche di riequilibrio fiscale.

Non è il PNRR che risolve la questione degli incentivi. Nelle mission del Piano (M2C2 Transizione e mobilità sostenibile, con una dotazione di circa 70 miliardi di euro), infatti, gli obiettivi sono il potenziamento della mobilità pubblica ecosostenibile e il depotenziamento di quella privata, lo sviluppo del refuel con l’idrogeno, delle infrastrutture del recharge elettrico, l’implemento di flotte “verdi” di bus e treni, e idem si può dire della M3C1 (Rete ferroviaria ad alta velocità/capacità, con una dotazione di oltre 28 miliardi di euro), con la medesima funzione di potenziamento della mobilità ecologica.

Non ci sono lì – né ci potevano essere visto il rilievo pubblico degli interventi  – le risorse per rinnovare la mobilità privata, che rimangono affidate a meccanismi discontinui di ordinaria e troppo graduale incentivazione.

Dovrà dunque essere il “mercato” a trovare le soluzioni per incentivare il rinnovamento del parco e per rendere più accessibile l’auto a minore impatto ambientale, accompagnato da un uso pubblico di una tutta da inventare fiscalità di favore/sfavore verso, rispettivamente, le energie più pulite e contro quelle più inquinanti, con la consueta logica del “chi più inquina, più paga”, laddove viene dato ideologicamente il presupposto che l’elettrico non inquina.

E nello stesso tempo, nel redistribuire il peso fiscale tra cosiddetti buoni e cattivi, si dovrà trovare il modo sia di incentivare in misura massiccia la riconversione del parco, sia di garantire la cosiddetta neutralità, ossia il pareggio, diretto od indiretto (in questo caso con occhio a costi e benefici collettivi) delle entrate.

Entrate che in Italia, per il settore dei trasporti, avevano nel 2019 (l’anno prima del COVID), nel loro complesso, un valore, dice Automobile Club d’Italia, di 65,2 miliardi di euro.

Qualcosa di molto più complesso che semplicemente “dire” la magica e taumaturgica parola “Transizione”.