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INTERVISTA DEL PRESIDENTE FIGISC, BRUNO BEARZI, A OIL&NONOIL

Faremo “azioni concrete di protesta, che andranno adeguatamente preparate sul territorio, anche per un recupero del rapporto con la base della categoria, verso cui, come dimostrano le ‘aggregazioni spontanee’ autonome c’è un deficit di fiducia e credibilità”. É quanto annuncia il presidente nazionale della Figisc Confcommercio, Bruno Bearzi, spiegando tutti i problemi che pesano ancora sulla categoria: dai nuovi adempimenti burocratici ed economici della fattura elettronica fino all’annosa questione dei rapporti contrattuali, passando per l’illegalità. 

Dal primo gennaio 2019 è in vigore l’obbligo per i gestori di emettere fattura elettronica ai clienti che ne fanno richiesta. Un bilancio di questi mesi?

I clienti che ne fanno richiesta sono, di fatto e di diritto, tutti i soggetti IVA, in quanto il rilascio della fattura elettronica per la cessione del carburante (che è andata a sostituire la vecchia carta carburante), corredata dalla tracciabilità del pagamento, è l’unico titolo per i medesimi soggetti di portare in deduzione il costo. Il bilancio del semestre non può certo definirsi entusiasmante, prima per le difficoltà che si sono avute, come in ogni startup di nuove procedure, per prendere la mano sia con gli strumenti che con gli utenti, e comunque sempre per la nuova mole di lavoro connessa a questo adempimento che si somma alle attività quotidiane dei gestori, con un aggravio di lavoro e di costi diretti (personale dedicato, software, commercialista, ecc.) e di costi indiretti (quelli di commissione per la moneta elettronica, con la lievitazione dei pagamenti tracciabili dovuta alla necessità, come già detto, per l’utente professionale od impresa di dedurre il costo del carburante).

Costi cui non ha posto certo rimedio il riconoscimento del credito d’imposta sul 50 % delle spese di commissione, e che si vanno a sommare ai ben noti squilibri economici delle gestioni, alle quali il risicato margine fisso (tanto più in quanto connesso alla ulteriore perdita di vendite) esistente nella contrattualità commerciale del settore non consente certo di poter assorbire i nuovi oneri di sistema come invece avviene in qualunque altra attività di impresa e di commercio in cui si dispone della libertà di determinare il prezzo finale.

Può elencarmi nel dettaglio tutti gli adempimenti relativi alla fatturazione elettronica?

Innanzitutto il gestore deve rilevare l’anagrafica del cliente che richiede la fattura, aggiungendo un codice univoco (oppure la PEC), indi segue la compilazione in termini di descrizione del prodotto carburante, della sua quantità e del prezzo unitario. La fattura va inviata al sistema (SDI) di interscambio, che ne verifica la correttezza e congruità dei dati e, nel caso positivo, inviata al cliente; nel caso in cui vengano rilevati errori, la fattura viene scartata ed a cura dell’emittente deve essere verificata e corretta, fino ad esito positivo dei controlli. I sistemi informatici dedicati sono molteplici: alcuni operano direttamente dal piazzale, altri con POS dedicati oppure a mezzo di gestionali residenti o remoti.

Tutte le transazioni vanno ovviamente regolate con sistemi tracciati. Si tratta di operazioni che necessitano di tempo dedicato per l’effettuazione delle procedure che antecedentemente – operazioni di moneta elettronica eccettuate – erano a carico dell’utente e che incombono oggi sul gestore. A partire dal 1° luglio, la fattura elettronica – che fino al 30 giugno in caso di fatturazione immediata – doveva essere emessa e trasmessa entro 24ore dalla prestazione – può essere emessa entro il termine di 10 giorni (elevati a 12 dal Decreto crescita), e dalla stessa data scatta il regime sanzionatorio in caso di inadempienza.

Intanto avete proclamato lo stato di agitazione e chiesto un incontro urgente al Mef sugli oneri fiscali imposti alla categoria. Nel mirino in particolare i costi della fattura elettronica, le criticità relative al credito d’imposta, e la trasmissione telematica dei corrispettivi.

Può spiegarci quali sono in termini fiscali le ricadute sui gestori di questi tre punti?

Direi che la rilevanza, più che in termini fiscali (al lordo dei rischi sanzionatori nelle casistiche di inadempienza e dell’alea connessa ad errori involontari), è in termini reali per tutti gli elementi di costo già prima indicati. Alla fattura elettronica si assomma l’incombenza della trasmissione dei corrispettivi, il DAS elettronico: in sostanza un processo di digitalizzazione complesso e spesso del tutto repentino rispetto allo stato “tecnico” degli impianti sul territorio e di familiarità di tanti gestori con lo sviluppo di questo processo.

Ma, al di là di questi aspetti, le questioni sostanziali sono altre. Vado per ordine.

  1. Queste misure servono davvero a contrastare l’illegalità del settore ed in che misura possono essere correlate proprio al gestore tradizionale?

Più no che sì, perché le frodi, l’evasione di tutte o di parte delle imposte che gravano sul prodotto, il contrabbando, sono fenomeni che stanno “prima” e “fuori” dal gestore, e non per una estraneità “ideologica” del gestore stesso o perché un rappresentante della categoria deve dire così, ma semplicemente perché quest’ultimo sta sull’impianto della compagnia, compra (e deve comprare, in rigidissimo regime di esclusiva) il prodotto solo dalla compagnia, che fissa il prezzo di fornitura ed il prezzo al pubblico. Diversamente viene estromesso e basta. Non ha modo di accedere ad un mercato parallelo, legale od illegale che sia.

  1. Sulla categoria, pertanto, pesano adempimenti che non intaccano la radice dell’illegalità, non producono recupero di gettito erariale, fanno dannare l’operatore e avvengono ad esclusivo carico del suo già dissestato conto economico, dal momento che i maggiori costi non sono a questo punto né compensati da maggiori vendite (l’illegalità continua ad inquinare il mercato comunque) né dalla possibilità di incorporarli nel prezzo (che il gestore non può determinare in forza dei rapporti di natura contrattuale e commerciale che vincolano questa davvero strana categoria).

Dal momento che non si possono, per legge, addebitare all’utente tali costi distintamente oltre al prezzo di vendita, e non si possono incorporare nel prezzo, perché il prezzo non è determinabile dal gestore, o qualcun altro paga questi costi (che ormai sono diventati strutturali, oneri di sistema) o facciamo consapevolmente peggiorare la sostenibilità economica delle gestioni.

Ma se l’industria petrolifera, invece, crede davvero che queste misure siano efficaci per riportare nella sua disponibilità quote di mercato importanti, che altrimenti sarebbero abbandonate alla illegalità, detto brutalmente, perché non ne sostiene i corrispondenti oneri? Oppure, per dirla più diplomaticamente, perché non favorisce le condizioni per cui i propri gestori possano essere in grado di assorbirli senza peggiorare una situazione già compromessa?

Crippa sottolinea che dai risultati emersi dall’anagrafe carburanti il numero degli impianti incompatibili è inferiore alle attese. Cosa ne pensa di questo dato?

Parlare di risultato inferiore alle attese è un eufemismo assoluto. Nel 1998, più di vent’anni fa, secondo il Decreto Bersani, nel caso la “pianificazione” non avesse sortito significativi risultati si sarebbero dovuti adottare provvedimenti per centrare un target basato sulla media del rapporto impianti/veicoli di quattro Paesi comunitari ritenuti più avanti nel processo di razionalizzazione della rete (Francia, Germania, Regno Unito e Spagna): con una mano di conti si sarebbe dovuti arrivare a 15 mila impianti sui 28 mila allora censiti. Le linee guida Marzano, risalenti al 2001, sono state trasfuse pari pari nella legge concorrenza del 2017, che ha legiferato la “razionalizzazione”, quali criteri per determinare l’incompatibilità degli impianti. In quasi vent’anni dalla loro prima emanazione, tuttavia, si sono cristallizzate sul territorio infinite deroghe locali che hanno finito per legalizzare situazioni di incompatibilità in nome del mantenimento del servizio. Non c’è da stupirsi che, alla fine, su un numero di impianti a tutt’oggi non precisato (23, 24, 25 mila?) gli incompatibili insanabili siano meno di due centinaia (meno dell’1 %).

Finita l’epoca della pianificazione e della razionalizzazione dall’alto, è il mercato a razionalizzare?

Non si direbbe, considerato che si dice che un terzo degli impianti aperti eroghi meno di 500 klt, ed un tanto nonostante la concorrenza, i new comers, i prezzi, e, forse per alcuni versi, àuspice proprio l’illegalità.

Ma, guardando un po’ più in là nel tempo avvenire, lo studio recentissimo di Unione Petrolifera sulla domanda energetica fino al 2040 ci fornisce una stima sull’evoluzione di consumi che, in somma sintesi, evidenzia come le vendite di benzina e gasolio (che oggi costituiscono più del 90 % delle vendite della rete distributiva), sia per l’efficientamento energetico che per la sostituzione del parco veicoli, si ridurranno del 30/35 % in dieci anni, del 65 % in venti, in sostanza rendendo inutili i due terzi della rete, che non saranno riconvertibili con le colonnine di ricarica, visto che ricovero e reintegro energetico dei mezzi elettrici privati coincideranno con la residenza, non con l’impianto dell’ex benzinaio.

E visto che il petrolio non è più politically correct per la classe politica, ci si può ragionevolmente attendere qualcosa di diverso in materia di razionalizzazione della rete che non sia solo una ripetitiva ricapitolazione di quanto detto e scritto negli ultimi vent’anni? La transizione verso una rete che dovrà essere per forza diversa sia qualitativamente che quantitativamente ed avrà bisogno di investimenti tanto quanto di dismissioni sarà una fase dominata dallo sgoverno e dal caso?

Il portale sta avendo riflessi anche nella lotta all’illegalità?

Già, il portale dei prezzi praticati: sarebbe interessante sapere, a distanza di anni, quanto questo strumento sia davvero fruito dal consumatore (numeri di accessi, per intenderci), al quale era diretto per farlo districare nella giungla dei prezzi. Non nascondo che non siamo mai stati affezionati allo strumento (in cui il mancato adempimento è sproporzionatamente sanzionato, detto per inciso), che consente di fare spot pro-indipendenti che possono competere e contro il gestore “normale” che non può competere per quelle ragioni che ho già citato e tornerò a citare. Pure, una qualche utilità reale oggi può svolgerla, se, e sottolineo se, usato per far emergere anomali livelli di prezzo che possano, previo accertamento, collegarsi a canali illegali di fornitura. Se si determinassero metodologie attendibili e si specificassero per la struttura ministeriale che lo gestisce deleghe e precisi poteri di segnalazione, non nego potrebbe essere di qualche aiuto. Diversamente, continuerà ad essere un’ennesima applicazione per la ricerca prezzi tra le infinite che offrono i privati, senza neppure avere il “timbro” pubblico, per un consumatore che ormai, per pratica decennale, sa benissimo trovare da solo e con gran facilità la convenienza sulla rete.

Quali altre misure andrebbero prese per contrastare questa piaga?

Il contrasto alla piaga dell’illegalità non si attua con le misure che la categoria si è vista caricare sul groppone: quelle misure sono, infatti, solo un’azione di contrasto a quello che in sintesi possiamo definire il passato “abuso della carta carburante” per eludere limitate basi imponibili gonfiando un po’ i costi di imprese e professionisti. Altra cosa è l’illegalità vera a monte, per la quale, oltre alle quotidiane e notevolissime attività degli organi preposti, in primis la Guardia di Finanza, serve in buona sostanza sottrarre la torta a chi la manipola fraudolentemente, a partire dall’introduzione nel settore del reverse charge per contrastare le frodi IVA, eliminare la possibilità di utilizzo delle lettere di intenti, introdurre il tracciamento molecolare del carburante. Ma su queste misure sono gli stessi protagonisti del settore a non essere d’accordo, il che finisce per diventare un alibi per il governo e l’amministrazione per non decidere, con in più la tara, già citata, dello scarso interesse per il comparto petrolifero. 

Recentemente si è aperto un altro fronte con IP. Il Mise ha assicurato l’apertura immediata del tavolo di conciliazione delle vertenze collettive. Cosa chiedete?

Sulla vertenza col gruppo api/IP – che quando decollò con l’acquisizione della rete TotalErg venne prematuramente salutato come uno scatto d’orgoglio e di riscossa del sistema petrolio Italia – la realtà è che le gestioni del marchio (ossia dei due marchi originari) vivono una situazione di assoluto degrado, cui corrisponde da parte dell’azienda il classico muro di gomma: nessuna credibile disponibilità alla contrattazione del rinnovo degli accordi (anzi, per contro, un diffuso ricorso alla contrattazione individuale e, quindi, in elusione alla norma), accordi ampiamente scaduti, all’adeguamento delle condizioni economiche, nessuna soluzione ed assoluta opacità sulle criticità strutturali sul piano dei rapporti amministrativi, aspetto quest’ultimo, ad esempio, che impedisce ai gestori di disporre anche dei cospicui crediti maturati, attesi da e per mesi, con evidente danno alla liquidità (in sintesi, i debiti del gestore sono incamerati immediatamente, i crediti non sono liquidati, una sorta di induzione al fallimento).

Ad un tanto si aggiungano una politica di prezzi mal posizionata rispetto alla concorrenza ed un progressivo divario del prezzo tra modalità servito e modalità self: risultandone una contrazione di volumi di vendita e marginalità della stragrande parte degli impianti condotti in gestione.

Come procede il dialogo con l’Unione petrolifera?

Il dialogo con l’Unione Petrolifera procede, come sempre, in termini generici e, comunque, nella consapevolezza che ogni azienda poi declina a suo modo i temi caldi, le specifiche politiche commerciali, ed in ogni caso le sue scelte sulla rete e/o fuori la rete. Al momento, esaurita la fase della definizione del contratto di commissione di primo livello, il tavolo riguarda soprattutto aspetti di natura tecnica (al momento, ad esempio, le condizioni di sicurezza negli scarichi di prodotto). Su prospettive e tematiche più ampie tutto è ancora da impostare. In ogni caso, rispetto a scenari più generali, bisogna ben tenere a mente che il ruolo di UP non è più quello di una volta, e questo non è assolutamente un problema di leadership, ma di profondo cambiamento del mercato e della rete: se fino a non molti anni, l’Unione era direttamente od indirettamente quasi l’intera rete, oggi lo stato delle cose è radicalmente diverso: non ci sono più le major che se ne sono andate dal mercato nazionale, non ci sono ovviamente gli indipendenti, non ci sono i retisti tradizionali, né i nuovi retisti che hanno acquisito i pacchetti Esso, e, tanto per ricollegarci al punto che precede, non c’è più neppure il gruppo API/IP; in altri termini, UP rappresenta il 50 % della rete.

Avete in mente azioni anche a livello di associazione?

Ovviamente: si tratta di andare ad azioni concrete di protesta, che andranno adeguatamente preparate sul territorio, anche per un recupero del rapporto con la base della categoria, verso cui, come dimostrano le “aggregazioni spontanee” autonome c’è un deficit di fiducia e credibilità. Ma una mobilitazione disgiunta da chiari obiettivi – che vanno accompagnati da azioni in tutte le sedi, politiche, istituzionali, aziendali – rischierebbe di lasciare il tempo che trova. Nella gravissima crisi generalizzata della categoria vi sono realtà diverse, per cui anche i percorsi per correggerla non possono risolversi in una formula magica buona per tutto e per tutti. Ci sono, dal minimo al massimo, vari assi di intervento su cui dover intervenire con obiettivi e criteri che devono essere adeguati al grado di difficoltà e disagio, ma anche relazionati ad una prospettiva più ampia.

Vi è da tempo un’area “grigia”, che si sta sempre più estendendo dopo lo smembramento di parte della rete, in cui non esiste alcuna forma di tutela; serve, a tutela di questa fascia di gestori “non garantiti” da nulla, un intervento normativo diretto che rimuova comportamenti elusivi, obbligando i soggetti che affidano gli impianti in gestione al rispetto della contrattazione ed all’applicazione esclusivamente dei format contrattuali tipizzati, e la tutela verso questa fascia deve estendersi anche concretamente al piano economico, prevedendo, ad esempio, che il trattamento minimo applicabile debba essere corrispondente alla media dei margini relativi agli accordi depositati al MiSE.

Quanto alle situazioni in cui sussistono relazioni più “normali”, ossia figure contrattuali definite e si fanno accordi, la questione di fondo è non tanto la definizione quantitativa di un margine in sé, quanto la sua relazione funzionale alla sostenibilità economica delle gestioni, in un contesto in cui, peraltro, il margine stesso, qualunque esso sia, non può essere considerato a sé stante rispetto a tutta una serie di clausole di pattuizione che incidono direttamente sul risultato, dal delta prezzo tra le modalità di vendita al riconoscimento dei cali, dalla gestione delle partite di dare/avere fino ai meccanismi per cui si concede al fornitore di “mettere le mani” nella tasca o nel conto corrente del gestore a senso unico. Alla medesima stregua, le famose “eque condizioni per competere” di cui alle leggi già vigenti non possono continuare ad essere un puro principio decorativo, che non trova nessuna precisa definizione negli accordi e che quindi non ha nessuna efficacia pratica per tutelare il gestore.

Infine, in prospettiva più ampia, si pone la questione della vera “asimmetria” di questo settore, in cui, da un lato, il gestore non ha autonomia di fissare un prezzo di vendita al consumatore finale sulla base del proprio conto economico, mentre il fornitore, dall’altro lato, ne fissa il “prezzo raccomandato”, oltre a mantenere piena autonomia di fissare il prezzo di cessione al gestore del marchio, di fissare un prezzo diverso di cessione ad un gestore di punto vendita sempre del marchio con caratteristiche tecniche diverse dall’altro gestore e/o in una trade area diversa, ma anche a soggetti diversi dai gestori del proprio marchio ed a condizioni di vantaggio.

Si tratta, quindi, anche di ragionare in termini proattivi alla introduzione, sempre in una prassi di tipizzazione concertata, di modelli contrattuali di impresa, atti – sia pure in forma graduale magari sperimentale – ad andare oltre l’integrale controllo della filiera del prezzo da parte del fornitore; modelli che si sostanziano nello scorporo dal prezzo di cessione, anche in permanenza dell’esclusiva di fornitura, delle componenti economiche o canoni relativi al riconoscimento della remunerazione degli investimenti della proprietà e/o dell’uso del marchio (cose che in legge già ci sono, ma non si sono mai concretizzate in nulla di fatto), che potrebbero trovare definizione in strumenti contrattuali (ad esempio, l’affitto di azienda o altri ancora) previsti dalla normativa civilistica, lasciando infine al rivenditore finale la libertà di fissazione del prezzo e di conseguire le finalità di impresa che gli sarebbero proprie.

Insomma, bisogna avere un percorso chiaro e soprattutto “di lungo corso”, dal momento che azioni spot, da sole, non risolvono i nodi della sopravvivenza della categoria e di una sua minima dignità ed autonomia imprenditoriale.